I disegni di Pietro Pacciani, il “mostro di Firenze” scomparso 21 anni fa, sono in un certo senso come le opere di Van Gogh, antepongono totalmente la vita all’arte. Tutto sommato quindi l’iniziativa della Galleria Venice Faktory, di esporre dal 20 settembre a Venezia una serie di disegni originali del “mostro”, ha una sua intelligente originalità. Una esposizione sicuramente indirizzata a chi nutre piacere nel voler capire qualcosa di più di quell’anziano uomo dall’aspetto rassicurante ma processato per sette duplici omicidi; per chi in
pratica ambisce a diventare lo psicoanalista di Pacciani. Cosa spinge quindi ad andare a vedere i disegni agresti e mal fatti di un presunto criminale? L’impulso di leggergli l’anima guardando una mucca, come se quei contorni elementari nascondessero la più complicata e oscura verità. Anche se non ti piacciono, senti che palpitano di indizi. La totale mancanza di forma estetica lascia più spazio al senso, anche se paradossalmente magari non c’è. Ma diventa una necessità cercarlo. Come è stata una necessità per Pacciani raccontarsi con quei disegni campagnoli, rincorrere qualcosa di autobiografico nell’isolamento e nella condizione di una vita ormai disperata. La sua urgente volontà di espressione forse non voleva vedere le ombre di una vita oramai terminata. Pietro Pacciani è un non-pittore, ma si è voluto calare dentro l’opera d’arte. Se volesse gridare la sua innocenza o scacciare i suoi più macabri impulsi omicidi non ci è concesso saperlo. Quello che percepiamo dai suoi disegni è un qualcosa da cui è difficile sfuggire. La necessità. Di raccontare per lui, di cercare per noi.
Stefania Bozzo