Non vi è dubbio che Antonio Canova aspirasse a Dio, ricercando la purificazione delle imperfezioni dell’uomo. L’immagine della perfezione ideale, scalfita nel freddo marmo, viene però anche trasformata in una bellezza viva. Uno dei suoi capolavori assoluti, “Paolina Borghese come Venere vincitrice”, non è la modulazione di un corpo morto ma è un’opera che riscalda i sensi; nel suo assolutismo si respira tutta la vita di una donna e della sua carne segnata dalle proporzioni perfette. La materia inerme non è solo idealizzata ma trasuda, nel candore, il sangue. Non si vede, ma si può percepire. Quello che non si può percepire nelle sue opere invece è la mano dell’artista, egli riesuma le forme togliendosi dalla scena, attraverso un processo di spersonalizzazione. Non c’è il peso della sua emotività, il suo graffito è trasparente. Ammirare un cospicuo numero di opere del Canova, in un unico spazio, diventa un’occasione non di conoscenza personale, ma la possibilità di percezione di un mondo dall’ordine assoluto. Egli vede quello che non c’è, ma che ci dovrebbe essere. Andare a visitare a Roma la mostra “Canova. Eterna bellezza”, a Palazzo Braschi dal 9 ottobre al 15 marzo, ci risucchia in un mondo fatto di visioni perfette. E ci
avvicina a Dio, in una concezione cristiana che non si rifà esclusivamente alle sue stesse iconografie, ma che ci fa cogliere l’Assoluto nel diverso. Personaggi della mitologia e della storia intrappolati in un tempo che li rende eterni, scalfiti e purificati. Il curatore della mostra, il Dottor Giuseppe Pavanello, ha voluto portare all’attenzione anche il processo di purificazione che gli addetti ai lavori hanno aggiunto al lavoro dello scultore veneto, “su ciò che non si vede, ossia i tanti restauri fatti per questa occasione”. Ma noi vediamo
solo quello che c’è. A Roma, la mano di Dio.
Stefania Bozzo