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Opinioni 13:28 | 09/03/2021 - Rimini

Un anno dal primo lockdown nazionale: il pensiero di Jamil

«Non ci sarà più una zona rossa, non ci saranno più zona uno e zona due, ma un’Italia in zona protetta. Saranno da evitare gli spostamenti salvo per tre ragioni: comprovate questioni di lavoro, casi di necessità e motivi di salute». Con questa frase l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava, il 9 marzo 2020, la firma di un decreto che avrebbe segnato la storia della nostra nazione. Dal mattino dopo, infatti, l’Italia intera sarebbe stata in lockdown in risposta all’emergenza causata dall’imperversare della pandemia da Covid-19.

Lockdown: un termine che oggi è di uso comune e che conosciamo tutti, ma in quel 9 marzo 2020 non venne nemmeno pronunciato. Si parlava solo di “zona rossa” o di “quarantena”, il concetto stesso di lockdown non esisteva ancora nella nostra esperienza.

Un anno dopo la situazione non sembra essere cambiata più di tanto: la Romagna, come altre zone d’Italia, è in zona rossa, e la trasmissione del virus non si ferma. Ripensare agli ultimi 12 mesi vuol dire ricordare chi non c’è più, il sacrificio di una intera generazione, la più anziana, che ci ha lasciato: nel 2020 a Rimini i decessi sono stati 355 in più rispetto alla media dei quattro anni precedenti.

Eppure, c’è ancora chi non si vergogna a dire e a scrivere che il Covid “è poco più di una influenza”. In un anno sono stati 26.153 i contagi ufficiali nella provincia di Rimini, e anche ieri abbiamo superato la soglia dei 300. Il 7,7% della popolazione residente nel territorio riminese è risultato positivo al tampone nell’ultimo anno. Questi sono i numeri, che però non si fermano.

Cosa ha significato per Rimini vivere nella pandemia? Ho voluto mettere in fila, random, alcune immagini che mi hanno colpito negli ultimi 12 mesi. Un po’ alla rinfusa: c’è la paura, la disperazione, la piazza deserta del 25 aprile, il lockdown, la ripresa estiva con le novità degli open space, il parco del mare e il Part, la sala degli abbracci. Queste immagini non hanno nessuna pretesa se non quella di essere dei flash personali di un anno vissuto pericolosamente.

Siamo stati di fatto due volte zona rossa, non ci siamo arresi, siamo ripartiti, poi ancora in ginocchio. Con il rammarico enorme, gigantesco, della chiusura delle scuole, vera e propria emergenza nazionale mai adeguatamente affrontata.

Non mai accettato la narrazione di un popolo indisciplinato alle regole, salvo una piccola minoranza di persone. Gli stessi riminesi nella loro stragrande maggioranza hanno dato dimostrazione di grande responsabilità e tenacia in questi 12 mesi difficilissimi.

Siamo allo stesso punto di un anno fa? No. Adesso abbiamo una speranza, i vaccini, che il 9 marzo 2020 neanche ci sognavamo. Dobbiamo fare in fretta, nei prossimi 100 giorni ci giochiamo, soprattutto come territorio riminese, la possibilità di una ripresa che possa già comprendere questa stagione. Fare in fretta i vaccini. E programmare il futuro. Ripeto, programmare il futuro. Anche a livello regionale e territoriale occorre che la rete sanitaria e ospedaliera tenga conto concretamente di scenari pandemici improvvisi.

Cosa ci vuole allora? Flessibilità. Studiare e realizzare moduli sanitari che, rapidamente, in caso di situazioni simili siano rapidamente disponibili a ospitare reparti intensivi e hub vaccinatori. Dire questo non deve essere più un tabù. Per le città significa “demetropolizzarsi”, ovvero non concentrare più i servizi al centro ma riportarli in ogni angolo del territorio. Per l’economia significa principalmente dare la possibilità di ripartire e di sprigionare energia senza che la burocrazia ancora una volta spenga voglia e speranze.

La macchina pubblica ha ormai poco, pochissimo tempo per ripensarsi e farsi trovare all’altezza delle sfide. Ma lo deve fare e deve trovare il coraggio con cui i riminesi, ad esempio, non si sono arresi durante il peggiore anno della nostra vita. Coraggio!

Jamil Sadegholvaad