Cronaca 17:23 | 11/04/2025 - Romagna

L'Ausl dovrà risarcire un milione di euro, ai famigliari della giovane donna che morì dopo una operazione ai calcoli

Doveva essere un banale intervento per l'asportazione dei calcoli renali ma qualcosa, nella sala operatoria dell'ospedale Maggiore di Bologna, era andato storto tanto da dover interrompere la procedura e, tre giorni dopo, una mamma riminese di appena 37 anni era deceduta nel nosocomio per uno shock settico nonostante tutti i tentativi dei medici di salvarla. La morte era avvenuta nel settembre del 2009 e i famigliari della vittima, assistiti dagli avvocati Saverio Bartolomei e Jessica Rogazzo avevano dato il via a un procedimento penale nei confronti dei medici che avevano operato la signora ma i sanitari erano stati prosciolti in quanto il pubblico ministero aveva richiesto l'archiviazione poi accordata dal gip nonostante l'opposizione da parte dei parenti della 37enne. Tale decisione era arrivata sulla base di due perizie che escludevano profili di negligenza o imperizia da parte degli operatori. Allo stesso tempo, tuttavia, era partito anche il processo civile nei confronti dell'Ausl di Bologna per ottenere il risarcimento dei danni con il marito, uno dei figli e il fratello della vittima che si erano costituiti parte civile. In primo grado il tribunale felsineo aveva accolto la domanda condannando l'azienda sanitaria a liquidare al marito e alla figlia 329.413 euro e 54.840 euro al fratello. Tale decisione, però, era stata impugnata ma, anche i giudici dell'Appello, avevano dato ragione ai parenti della 37enne con l'ulteriore ricorso in Cassazione da parte dell'azienda sanitaria.

Dopo tre gradi di giudizio, arriva la sentenza definitiva della Cassazione che ha condannato l’azienda sanitaria emiliana a pagare 1 milione di euro: oltre 600mila euro ai familiari che si erano costituiti parti civili. Ovvero il marito, la figlia e il fratello della donna a cui si aggiungono altri 330mila euro per il secondo figlio. In sede di cassazione i giudici hanno stabilito in via definitiva che la causa del decesso è stata l’insufficiente raccolta dei data anamnestici di una persona che aveva una pregressa storia clinica di infezioni urinarie: “sarebbe stato necessario – motiva la Cassazione -, alla stregua delle Linee guida applicabili in materia, elaborate a livello europeo (EAU) e nazionale, nello specifico dalla Società italiana di urologia, procedere a approfondite analisi preoperatorie al fine di determinare se l’infezione era ancora attiva, al fine di prescrivere appropriata terapia antibiotica, a più elevato dosaggio di quella che venne in concreto effettuata e per un tempo necessariamente più lungo, con prosecuzione nella fase postoperatoria“. Per questi motivi “in considerazione della sua storia clinica, dovevano essere effettuate indagini mirate, pur in assenza di sintomi quali la iperpiressia, il bruciore urinario persistente e il malessere generale“.

“Dopo 14 anni è stata accertata la responsabilità - ha spiegato l’avvocato Saverio Bartolomei - ed è stata emessa una sentenza non più impugnabile che sancisce il risarcimento per i miei assistiti. Lo stesso importo riconosciuto alla figlia della vittima, 329mila euro, sarà liquidato anche al secondo figlio della 37enne che, per strategia processuale, non era stato coinvolto nel procedimento. A favore di quest'ultimo, sulla base della decisione della suprema corte, è già stato depositato un atto che impone all'Ausl di Bologna di liquidare quanto stabilito dalla Cassazione.”