La mostra ai musei di San Domenico “L’Eterno e il Tempo. Tra Michelangelo e Caravaggio” è l’improbabile descrizione di un matrimonio napoletano in una pagina (senza punti) dello scrittore portoghese Antonio Lobo Antunes. L’abbondanza, senza respiro, nell’inatteso. Un’apnea partenopea che a Forlì sta come Scipione Pulzone sta a Bartolomeo Passerotti, giusto per rimanere in mostra. Alcuni dei più stupefacenti capolavori della pittura italiana del Cinquecento sono stati trasferiti dalle chiese e dai musei più importanti d’Italia per riempire uno spazio imbarazzato, quasi incredulo, impreparato. Uno spazio che sembra osservarci, e noi osserviamo lui, attraverso lo sguardo fisso (di chi subisce l’azione) del soldato in primo piano nella “Conversione di Saul” di Ludovico Carracci. Vanitoso, immerso in noi e con noi, implacabile e implacato nella sua solidità. La mostra “L’Eterno e il Tempo. Tra Michelangelo e Caravaggio” è anche una bimba capricciosa. Brama tutto, ottiene tutto, oltre l’immaginazione. Ed ha gli stessi occhi carichi di sogghignante appagamento di Pio V Ghislieri nel ritratto di Scipione Pulzone, anch’esso in esposizione. Tra gli altri Michelangelo, Caravaggio, Raffaello, Rosso Fiorentino, Lorenzo Lotto, Sebastiano del Piombo, Pontormo, Correggio, Bronzino, Vasari, Parmigianino, Paolo Veronese, Tiziano, Guido Reni, Rubens (e tutti gli autori del percorso zeriano) convogliati in una bizzarra operazione di colossale decentramento artistico che vorrebbe fare di Forlì la Mecca dell’arte cristiana del Cinquecento. Un luogo di pellegrinaggio di massa. Perché, se così non fosse, nel poco originale codice lessicale del concept forlivese (tra Eterno e Tempo, Cielo e Terra, Infinito e Uomo, Sacro e Profano), che interpreta e inventa per permettere all’astrattismo dei paradossi di incuriosire, dovremmo aggiungere anche più torbide, terrestri, disilluse contrapposizioni (tra il Sensato e l’Insensato, il Vano e il Fecondo, il Pudico e l’Impudente). Ed è praticamente certo che, con queste maglie larghe, tra il Probabile e l’Improbabile vincerà l’Improbabile.
Forlì rischierà di rimanere isolata nonostante la sua sconvolgente aurea artistica. Non diventerà mai la Mecca del Cinquecento italiano perché i paradossi a volte si ribellano anche a se stessi. L’“arte è senza tempo” (riprendendo Federico Zeri), ma ha uno spazio a volte sacro, a volte sensatamente inviolabile. Spostare la Madonna dei Pellegrini di Caravaggio (così come tantissimi altri capolavori) dalla Chiesa romana di Sant’Agostino in Campo Marzio per portarla in una Mecca inesistente è l’equivalente di trasferire l’Ara Pacis Augustae a Salsomaggiore Terme (anche se liberare l’altare dal suo ampio sarcofago futurista non sarebbe del tutto un’idea
paradossale). E se tra le motivazioni sostenute da Paola Refice, una dei curatori della mostra, risuona “ perché non si getti alle ortiche quel tanto di etica rimasta a presidiare i discussi baluardi della cultura, le mostre devono avere un senso”, sensatamente non fai dei musei di San Domenico di Forlì il paradosso di uno spazio spregiudicatamente ricco, ma scarno d’occhi.
La mostra “L’Eterno e il Tempo. Tra Michelangelo e Caravaggio” è una mostra in cui rinasci grazie alla bellezza in uno spazio morto. E rende inevitabilmente meno vivi i luoghi deturpati dalle loro opere, immobili tra l’Assenza e la Presenza. Fino al 17 giugno. Un tempo eterno.
Stefania Bozzo