Tra le celebri inversioni di punti di vista che Borges ci propone nei suoi libri quella che riguarda Abele e Caino è attualizzabile nella sensibilità di ogni tempo. I personaggi biblici, per lo scrittore argentino, non sono più “il buono e il cattivo” ma due uomini che si sono mossi con modalità diverse; il primo subendo, il secondo agendo. I fratelli nel racconto s’incontrano nel paradosso di un tempo che precede la storia, dopo la morte di Abele. Sotto un cielo di stelle senza nome il dialogo tra i due riassume, con una formula rapida ed efficace, una sensibilità nuova applicabile anche fuori dai precetti che devono forzatamente distanziare il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. Abele: “Tu mi hai ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più. Siamo qui insieme come prima”. Caino: “Ora so che mi hai perdonato davvero perché dimenticare è perdonare. Anche io cercherò di dimenticare”. Eh sì, perché anche in una prospettiva che esce dal tempo, Caino è quello che se la passa peggio; Abele l’ha perdonato, lui non si è perdonato. E in questo retroscena della Bibbia, che annulla la distanza e la differenza tra gli uomini, ha più peso il tormento del rimorso che l’atto violento in sé. Perché non ci può essere godimento nel dolore sia nel tempo, che fuori dal tempo; al di là di ogni modalità, visione, storia. E’ un dato di fatto che nel caso del piccolo Alfie Evans c’è qualcuno che subisce e qualcuno che agisce sfidando la vita. I medici dell’ospedale di Liverpool e l’Alta Corte inglese sono Caino, Alfie e la sua famiglia sono Abele. E’ una cronaca che si fa Bibbia. E sia nella canonica visione biblica, di un modo diviso tra giusti e non giusti, che nella visione ribaltata di Borges, Caino è la vera vittima della sua violenza; indistintamente dalla morale. Abele è vivo e trionfa. Caino invece è un po’ più morto.
Stefania Bozzo
Opinioni
15:18 | 30/11/2017 - Rimini