Maryam di Gaza è come Maria di Nazareth. Quell’immagine di giovane donna velata e china nell’avvolgere il volto della figlia avvolta nelle fasce della morte è una Pietà che diventa cupa iconografica fotografia. Maryam e la piccola Leila, la bambina di otto mesi che secondo le autorità palestinesi sarebbe morta per le inalazioni di gas lacrimogeni negli scontri di Gaza, escono sia dalla storia che dalla religione. Imprigionano il dolore nella sua forma più pura. Nella pietà evangelica, in quello strazio mariano, in quell’istante eterno, Dio non c’è. Maria e il Cristo sono soli. Così come a Gaza. Israele, Palestina, gli scontri, l’odio, le rivendicazioni, le proteste, i veti ribollono come echi lontani. Il cerchio si stringe intorno all’abbraccio della giovane donna e della figlioletta, e anche Dio è escluso. Dio è Morto (Nietzsche) all’esterno della Pietà, mentre nella Pietà non lascia nessuna traccia. Come se ci fossero momenti in cui il dramma debba rimanere solo nell’assolutismo del suo spazio, privo di spiegazioni. Possiamo solo contemplarlo e odiarlo. E la forza di quell’immagine è un’icona del dolore che attraversa incontaminata il tempo protetta dalla sua solitudine, lasciando all’esterno quel “sentimento di nullità di tutte le cose, l’insufficienza di tutti i piaceri” (Zibaldone, Leopardi). La madre di Gaza sovrappone due immagini di Maria di Nazareth, Maria col bambino e Maria nella deposizione del Cristo, tutto in un’unica straziante verità. Una Pietà che piange il peso della sua solitudine e ribolle nell’eco circoscritto del suo spazio.
Stefania Bozzo
Opinioni
11:01 | 28/04/2018 - Dal Mondo