Sicuramente l’estetica non ha un paradigma fisso, così come il valore di una protesta, ma non v’è dubbio che a volte imprese simboliche e concettuali prendano pieghe insensate o distruttive. Se lontanamente c’era qualcosa da capire, uno sprazzo di ragione, un intento nobile, il simbolo illogico scelto cancella tutto. Tabula rasa. E tra orsi e banane questa settimana sia l’estetica che la protesta hanno perso pezzi. Era meglio l’inerzia. “Comedian”, la nuova opera di Maurizio Cattelan esposta in questi giorni alla fiera Art Basel di Miami, è una banana vera attaccata al muro con un pezzo di nastro adesivo grigio. E’ stato praticamente venduto a 120mila dollari un frutto che inevitabilmente marcirà; resterà lo scotch più caro di tutta la storia degli scotch. L’unica spiegazione è che è stata riacquistata da Cattelan. L’ha comprata dal fruttivendolo, se l’è ricomprata al Museo, e poi evidentemente tornerà dal fruttivendolo. Insomma, acquisti multipli e simbolici, ma con un modesto dispendio di denaro. Non sono molto logici nemmeno questi passaggi, ma
almeno fanno riflettere sul concetto artistico e fanno notare in che modo e a quali oggetti diamo valore senza troppo impegno. Sì, insomma, una roba tranquilla, volando bassi. Il fatto poco tranquillo invece arriva dalle lande ghiacciate dell’Estremo Oriente Russo: un orso polare si aggira tra i ghiacci marchiato dalla scritta “T-34”, eseguita sul fianco con uno spray nero. Il “T-34” è un famoso carro armato sovietico, ed è diventato presumibilmente il simbolo della protesta delle popolazioni del circondario autonomo russo della Chukotka, spaventate dai sempre più orsi bianchi che si spingono nei villaggi abitati a causa della penuria di cibo. Chiunque sia stato è un gesto insensato e crudele. Ma si possono colpire le vittime? La scritta è una condanna a morte per l’animale, già tragicamente in pericolo come specie. Quel folle marchio impedisce all’animale di mimetizzarsi sulla neve e quindi lo rende una preda vulnerabile. Non c’è niente da capire. Nessuno sprazzo di ragione. Tabula rasa.
Stefania Bozzo