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Opinioni 09:54 | 24/09/2019 - Dal Mondo

“C’era una volta a… Hollywood”, la fiaba di Tarantino dal giudizio universale

“C’era una volta a…. Hollywood”, del maestro Quentin Tarantino, è Come il “Giudizio universale” di Michelangelo. E nella Cappella Sistina che è il cinema puoi ammirare l’opera d’arte seguendo due parametri: oggettivo o soggettivo. Oggettivamente nel film c’è una tale minuzia di dettagli della Hollywood del 1969 che porta a ribaltare il rapporto con la realtà; c’è un tale potere descrittivo che se ti sei guardato una sfilza di movie di quell’anno, essi paradossalmente perdono di storicità. Come se l’arte (il cinema) ispirasse la vita, e non viceversa. Come se Michelangelo influenzasse Dio, in qualche modo. Ma esattamente come quando sei di fronte al capolavoro del Buonarroti, davanti all’opera di Tarantino l’oggettività tende a indietreggiare, sei assuefatto dalla perfezione e la soggettività prende il sopravvento. Ti siedi su una nuvola, lasciandoti trascinare soffice dalla corrente che ti porta a seguire i personaggi attraverso tre giornate della loro vita. Li segui, senza interessarti troppo alla loro salvezza o dannazione, impari a conoscerli, a tal punto da poter immaginare anche le loro mosse future, a film spento. E’ la forza dell’immaginazione che diventa reale. Mi immagino Michelangelo plasmare i corpi e le anime dei suoi personaggi, a tal punto da perderne il controllo, tanto da diventare spettatore del suo Giudizio. Così mi immagino Tarantino. I corpi e le anime in “C’era una volta a …Hollywood” sono animati da un cast perfetto. Leonardo DiCaprio, che interpreta l’attore in declino Rick Dalton, Brad Pitt, la controfigura Cliff Booth, e la splendida Margot Robbie, l’attrice Sharon Tate, sono iconograficamente insostituibili. Oggettivamente c’è una tale bravura nell’interpretazione di Leonardo DiCaprio, in questa parte recitata a matrioska, che assuefatto dalla perfezione indietreggi dall’attore più bravo di tutti i tempi per dedicarti a Rick. Scenderesti dalla nuvoletta pur di avvolgerlo in un soffice abbraccio, per sussurrargli parole di conforto, perché tutto sommato non è così malaccio come crede. Ma ci pensa Cliff, che non è solo il suo stuntman dai muscoli disegnati, ma anche il suo miglior amico, il suo psicologo, il suo tuttofare, il suo autista. E guidando Booth ci dà l’istantanea di una Los Angeles che ci scorre dietro, con noi seduti sul sedile posteriore. E potremmo facilmente imbatterci nella figura angelica di Sharon Tate. Nell’opera lei sta in alto, tra i beati. Come il “Giudizio universale” di Michelangelo ha segnato la fine di un’epoca e ha costituito uno spartiacque nella storia dell’arte, anche la Hollywood del 1969 ha fatto da spartiacque per la storia del cinema (e del mondo). Ed è tutto percepibile dalla prospettiva dei personaggi che si palesano in tale fiaba tarantiniana. L’ultimissima scena è la più fiabesca e, a mio avviso, la più inedita del regista. Ha un’anima femminile, come se nella creazione ci fosse il tocco soffice e delicato di un alter ego femmineo. Una scintilla vitale che viene dall'alto, dai beati. E che ti regala una inevitabile e autentica commozione. “C’era una volta a … Hollywood”, scritto e diretto da Quentin Tarantino, è un’opera d’arte cinematografica prodigiosa, da qualsiasi posizione la guardi. Anche seduto su una nuvola, il giudizio non può che essere universale.

Stefania Bozzo

Cronaca