Buongiorno a tutte e a tutti. Il 4 Novembre, oltre a ricordare la fine di quella grande tragedia che fu la Prima Guerra Mondiale, celebriamo la Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, che oggi sono qui presenti e che ringrazio per aver risposto al nostro invito, insieme alla Polizia locale, alle associazioni combattentistiche e alle autorità civili, compreso il Vice Prefetto Fiorangelo Angeloni.
Credo sia giusto, in occasione di ricorrenze come questa, non appiattirsi sulla retorica, ma farsi delle domande, interrogarsi sul vero significato di una celebrazione per darle il pieno valore che merita. Dedicare un momento di riflessione alle Forze Armate significa ringraziarle per il prezioso lavoro che svolgono quotidianamente, spesso lontano dai riflettori.
Un impegno che le vede protagoniste come forze di pace nell’ambito di operazioni di peacekeeping in alcuni tra i principali teatri di guerra del mondo, oppure all’interno dei nostri confini a supporto delle forze dell’ordine o, ancora, della popolazione civile in occasione di grandi eventi calamitosi che purtroppo, sempre più spesso, si verificano nel nostro Paese e non solo.
In questi giorni, in particolare, il pensiero va alla città di Valencia, colpita da una tragedia che ci tocca molto da vicino: a tutte le vittime dell’alluvione spagnola va il cordoglio della città di Santarcangelo, insieme alla nostra solidarietà per chi ha perso le persone care.
In un Paese democratico come l’Italia che “ripudia la guerra” per Costituzione, il ruolo delle Forze Armate “in tempo di pace” è tutt’altro che semplice o banale: perché la pace dev’essere il nostro orizzonte sempre, non possiamo né vogliamo immaginare di dover combattere una guerra a meno di un secolo dall’ultima.
Eppure intorno a noi il mondo va in un’altra direzione. E, quindi, forse, è proprio su questo che oggi viene messa alla prova quell’Unità nazionale a cui fa riferimento questa ricorrenza: siamo davvero uniti, come Paese, sul ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali?
Siamo ancora sulla stessa lunghezza d’onda dei Costituenti, che scrissero l’articolo 11 avendo chiaro in mente e nel cuore il trauma appena trascorso della Seconda Guerra Mondiale, nella piena consapevolezza di cosa è la guerra e del perché vada considerata uno dei mali assoluti da evitare a ogni costo?
Questo mi domando guardando all’Italia e al mondo. Un mondo che di recente ha infranto un record che dovrebbe preoccuparci tutti: il 2023, con 59 conflitti in 34 Paesi, è stato l’anno con il più alto numero di guerre in corso dopo la Seconda Guerra Mondiale, e il 2024 non mostra grandi segni di miglioramento.
La statistica proviene dall’Indice dei conflitti, che monitora annualmente il numero di guerre in corso nel mondo: una cifra che può variare, arrivando fino a quasi 200, se si modificano i parametri della raccolta dei dati includendo anche i conflitti di minore entità, che aumentano la probabilità di guerre più grandi in futuro. Le conseguenze di questa situazione sono tragiche: le vittime sono 162mila solo nel 2023, il dato più alto degli ultimi trent’anni, e aumentano di ora in ora nel 2024.
Nel frattempo, Oxfam stima che quest’anno le persone bisognose di aiuti umanitari a causa della guerra sono 300 milioni, ma circa metà di queste persone non saranno raggiunte dal sistema internazionale degli aiuti, che richiede complessivamente 46,4 miliardi di dollari solo per far fronte alle necessità immediate causate dalla guerra. Per ragioni di prossimità e di rilevanza, i due conflitti che occupano maggiore spazio nelle cronache italiane, e non solo, sono le guerre in corso in Ucraina e a Gaza, responsabili dei tre quarti delle vittime nel 2023.
Seguiamo con apprensione queste due guerre ma ormai ci siamo dimenticati la Siria, lo Yemen e il Sudan, senza considerare Paesi dilaniati da scontri tra gruppi armati e uccisioni di massa come il Myanmar, il Messico e la Nigeria, il Brasile, la Colombia e Haiti, solo per citare gli scenari peggiori secondo l’Indice già citato. A questo punto arriviamo alla domanda più difficile: cosa possiamo fare noi? Come è possibile, se è possibile, incidere su queste situazioni che causano quotidianamente sofferenza e morte?
Per le guerre in corso, ci dice ancora Oxfam, possiamo chiedere ai nostri decisori “un maggiore impegno in soluzioni diplomatiche in linea con il rispetto del diritto umanitario internazionale e dei diritti umani”. Perché “senza giustizia la pace è sempre fragile, e una pace fragile può essere causa di un nuovo conflitto”.
È altrettanto importante, aggiungo io, che le singole persone come noi alimentino quotidianamente un discorso di pace, facendo sentire il proprio supporto a chi lavora in questa direzione, partecipando a iniziative pubbliche e facendo sentire la propria voce anche online.
Un discorso di pace che può e deve servire anche a prevenire i conflitti, alimentati da cause che spesso “si manifestano con un certo anticipo”. Per questo, “serve grande attenzione e capacità di disinnescare le possibili scintille, da parte dalla società civile e della comunità internazionale”. La necessità di promuovere “processi inclusivi per colpire alla radice le possibili cause e individuare soluzioni comuni per mitigare possibili attriti futuri” vale a livello internazionale, nazionale e locale.
L’ascolto e la comprensione, il rispetto e l’inclusione sociale di tutte le comunità sono – o dovrebbero essere – la base del nostro vivere civile, in un processo di valorizzazione delle differenze che troppo spesso, invece, rimane solo sulla carta.
A dominare il discorso pubblico, oggi, è la violenza, a cominciare dal dibattito politico: la campagna elettorale per le imminenti elezioni statunitensi, in questo senso, ha dato ancora una volta al mondo un pessimo esempio, sperando che non debba seguire qualcosa di peggio nei prossimi mesi.
La pace infatti è soprattutto cultura, una cultura che esclude a priori il possibile ricorso alla violenza e al conflitto come opzioni praticabili per il superamento di divergenze che, com’è normale e giusto che sia, caratterizzano la vita pubblica di ogni paese democratico.
“Si vis pacem, para bellum”: “Se vuoi la pace, prepara la guerra”, dice una celebre massima latina che è stata parafrasata in mille modi, ma sempre con l’idea che per vivere in pace ci si debba armare fino ai denti.
Dopo un anno di guerra a Gaza, due anni e mezzo di guerra in Ucraina, di fronte agli innumerevoli conflitti in corso che non ho potuto citare uno per uno, mi piacerebbe che si prendesse un po’ più in considerazione la versione pacifista di questa massima: “Se vuoi la pace, prepara la pace”.
Perché la versione originale, diciamo, non ha dato grandi frutti fino a oggi, quindi sarebbe interessante provare a cambiare strada, se non altro per vedere l’effetto che fa. Questo mi auguro e ci auguro: continuiamo a coltivare la pace. Grazie.