“Solo una piccola parte di quanto un tempo è esistito è stato sepolto nel terreno, solo una parte di quanto fu sepolto è sfuggito all’opera distruttrice del tempo” (Montelius, 1888, p.5). Certo che se aggiungiamo anche l’opera distruttrice dell’uomo, beh, allora siamo freschi. Il Sudan per esempio è una grande ricchezza archeologica, detiene circa un migliaio di siti molto importanti, ma già un centinaio di questi sono stati danneggiati o completamente distrutti. L’ultimo in ordine di tempo è l’antico insediamento nubiano di Jabal Maragha, nel deserto di Bayuda e datato tra il 350 a.C. e il 350 d.C., fatto letteralmente scomparire da un gruppo di ricercatori illegali d’oro. Macchinari pesanti, un’ampia voragine per trovare il tesoro, ed il sito archeologico è sparito nel giro di poco. E pensare che il lavoro dell’archeologo è tutt’altro che sbrigativo, si basa su un minuzioso metodo legato alla stratificazione. Ed è il compito di chi studia la stratigrafia identificare strati e interfacce, perché tutti i processi sono il risultato di cicli di erosione e deposito; distinguere i depositi naturali da quelli antropici; effettuare le documentazioni relative alla sezione e alle piante che porteranno ad un completo studio monumentale e topografico dell’insediamento. Qualcosa inevitabilmente potrebbe andar perso se non si usasse un minuzioso approccio scientifico, si deve prestare particolare attenzione ai rapporti stratigrafici di ciascuna unità con le unità soprastanti e sottostanti e con le unità che possono essere stratigraficamente in rapporto d’uguaglianza. L’archeologia è una scienza certosina e di certo non si basa sull’apertura di ampie voragini. “Un crimine imperdonabile in archeologia è la distruzione di testimonianza che non possono essere ricostruite” (Petrie, 1904, p. 48). Capito cercatori d’oro che avete distrutto il tesoro?
Stefania Bozzo