Se l’arte nasce come un movimento della vita, il relitto del grande peschereccio libico simbolo delle tragedie delle migrazioni degli ultimi anni all’Arsenale di Venezia è sulla carta un progetto artistico intelligente, non particolarmente originale, ma in linea con il nostro tempo. “Barca Nostra”, come l’ha ribattezzata Christoph Buchel (ideatore dell’installazione), si impone per interfacciarci con la morte, sulla terraferma; diventa lo specchio di qualcosa che evitiamo di guardare tra le onde. Ma anche se quel contenitore è stato di fatto la bara sul Canale di Sicilia di oltre 700 persone, temo che il valore dell’estetica (quello estremizzato, quello che spinge lo spettatore ad avvicinarsi all’opera per scattare foto e selfie) prevalga sulla realtà, prevaricandola. Che quell’opera non diventi in realtà lo specchio delle insicurezze e delle ingiustizie che si muovono con la vita, ma che diventi un cimelio curioso. E non c’è niente di peggio che associare il dramma alla curiosità. L’arte qui non può superare l’esistenza; dovrebbe solo specchiarsi con noi, accanto a noi. Dovrebbe alzare il dito, quello del rimprovero. E noi dovremmo abbassare lo sguardo, quello della vergogna. Ma l’arte non dovrebbe farsi impietosire, dovrebbe insistere con i
contenitori, mostrandoci una panoramica globale. La Namibia per esempio OGGi sta diventando la bara per più di 500 mila persone, che stanno patendo la fame a causa di una devastante siccità. 60 mila animali domestici sono morti in sei mesi a causa dell’assenza di pioggia dell’inizio dell’anno. Il Presidente Hage Geingob ha decretato nei giorni scorsi lo stato di emergenza per il Paese dell’Africa, che sta vivendo ore drammatiche. Qui l’arte non è accanto a noi. Su questa siccità non abbiamo onde su cui specchiarci, nessun cimelio curioso, nessuna installazione artistica. Ma è comunque il caso che abbassiamo lo sguardo, quello della vergogna.
Stefania Bozzo