Accostare Elliott Erwitt, il famoso fotografo statunitense, a Caravaggio potrebbe sembrare una stonatura interpretativa. Una critica che interpone temi troppo distanti e che accavalla tempi troppo lontani. Ma in
realtà Caravaggio e Erwitt sono due artisti contemporanei. E Caravaggio è più vivo di Erwitt perché le sue pitture sono fotografie che fermano il tempo in un’attuale istantaneità che la macchina di Elliott, per sua natura, non può far perdurare. I quadri sono foto svecchiate, le foto invece istantanee di un tempo che del vecchio non si possono sbarazzare. Erwitt e Caravaggio nascono artisticamente negli anni ’50. O meglio, Caravaggio rinasce. Se con il trionfo del più profondo barocco l’artista maledetto viene volutamente dimenticato, nel 1951 la sua arte (riscoperta dal noto critico Roberto Longhi) sfocia in una prestigiosa mostra a Milano che fa riaffiorare la percezione del reale caravaggesco. Una sensibilità moderna che si riappropria di un tempo che la può percepire. Mentre Elliott fotografava la storia della seconda metà del Novecento, ponendo il suo sguardo acuto ed empatico a servizio della nota agenzia Magnum a partire dal 1953. Se “La natura che parla alla macchina fotografica è una natura diversa da quella che parla all’occhio”
(W. Benjamin), gli occhi liberi di entrambi gli artisti hanno permesso di svelare la natura dei personaggi che immortalano attraverso la stessa spontanea azione. La realtà delle non pose. Nel “Fanciullo morso dal ramarro” Caravaggio ruba la scintilla di una smorfia improvvisa, quella prorompente e assoluta immediatezza; la vita entra nell’arte e si immerge con tutta la sua vorace spudoratezza. E’ il ramarro che muove l’azione. Così come la trombetta di Erwitt, utilizzata per rompere la barriera tra obiettivo e soggetto e cogliere la densità di uno scatto improvviso. L’autenticità vince sull’ideale. E con quell’espressione fotografica così sorpresa e ben poco confezionata Andy Warhol sembra anche meno “pop”. Punti di vista che cambiano. Così come cambia la prospettiva di Caravaggio nella “Conversione di San Paolo”, con un’inversione spaziale che rende protagonista il cavallo, anche Erwitt ad un certo punto della sua carriera decide di “fotografare le scarpe da un punto di vista canino, perché i cani vedono più scarpe di chiunque altro”. I cani negli scatti del fotografo diventano anche personaggi buffi che prendono le sembianze dei loro padroni e che sembrano interporsi tra loro. Così come sembrano accostarsi due Merisi e due Erwitt. In Caravaggio convivono infatti un “sofisticato intellettuale” e, romanticamente parlando, un “maledetto avventuriero”. Una doppia personalità che si evince anche nella manifestazione creativa di Erwitt attraverso Andrè S. Solidor (il cui acronimo è A.S.S.), l’alter ego che il pittore dedica a tutto ciò che detesta, parodiando gli eccessi della sua stessa categoria. Un fotografo estremamente eccentrico, circondato da modelle nude e cappelli, che rappresenta quella sregolatezza che è poi l’altra faccia della realtà. Quel piacere per il travestimento che tenta anche Caravaggio con i suoi Bacchi, impersonificando modelli estetizzanti che aggiornano il mito classico calandolo nel reale. La mostra Personae, che è stata allestita ai
musei di San Domenico a Forlì con esposti 170 scatti di Elliott Erwitt, ha ripercorso la fugacità di un occhio artistico che di caravaggesco mantiene il ricordo di una realtà che passa dalla vita all’arte lasciandoci come
immagini le icone dei nostri tempi.
Stefania Bozzo
Opinioni
15:29 | 19/11/2017 - Rimini