L’idea progettuale non geniale di Luca Pignatelli di interporre ad un antico tappeto persiano un’immagine classica è stata surclassata dall’effetto stupefacente. D’altronde l’arte ha anche il potere di arricchire la banalità, riuscendo a farci percepire la realtà in talmente tanti modi diversi, anche partendo da schemi mentali poco irruenti. Ammirare la bellezza di “Persepoli”, l’opera monumentale dell’artista contemporaneo esposta nella Sala del Mosaico della Biblioteca Classense di Ravenna fino al 23 novembre, induce a percepire uno straordinario potere solidale. E’ come se quella classicità prendesse voce nel presente, spinta dal passato di un tempo e uno spazio non contemporaneo ma amico. L’iconografia mediorientale spintona quella classica, si sbiadisce e indietreggia per fare posto. Nel caos barocco di una forma che prende vita. E’ un’opera che nel suo insieme antepone. E dietro a quel tappeto c’è anche l’artista. Preme. Le forme artistiche emotive del profondo, quelle psicoanalitiche, sono sacrificate. L’opera non esce da lui, è un gesto solidale dell’artista a favore di una creatura perfetta, non più lontana. E l’immagine di quel volto classico antepone lei stessa un delicato pudore all’indiscussa grazia prospettica; come se quel ruolo da protagonista non le calzasse, la precede, ma sarebbe volentieri rimasta in coda. Quindi, tra gli spintoni, in fila per la scena solidale dell’opera troviamo: artista, tappeto, statua, imbarazzo. Una “Persepoli” che si rivela quindi classicheggiante, ma soprattutto vergognina. “Imbarazzopoli” a
“Persepoli”. Prima di tutto.
Stefania Bozzo