Di fronte all’Universo noi siamo come i personaggi rivolti verso l’orizzonte rappresentati dal famoso pittore tedesco Kaspar David Friedrich. Schiacciati, tra terra e cielo, dalla nostra inadeguatezza ma spettatori di un paesaggio spaziale aperto e libero. Un pensiero romantico (e leopardiano) che si materializza con la scoperta del buco nero più vorace di sempre, un “mostro” grande come 20 miliardi di soli individuato da un team di astrofici australiani; un buco nero che ogni due giorni divora la massa equivalente del nostro Sole. Chissà come avrebbe rappresentato tale sconvolgente visione il citato pittore ottocentesco. Sulle nuove scoperte, nei suoi dipinti, avrebbe aggiunto infinito ad infinito. E se quello che vediamo è soltanto un ritaglio di cielo, la sua idea di continuazione avrebbe recepito di questa lontanissima realtà ancora più sgomento ed esaltazione, felicità e terrore. Dove l’uomo non c’è per natura, del tumulto è osservatore puro. Il buco nero è la massima espressione della sua non dominanza sul cosmo e allo stesso tempo il vorace godimento che produce lo starne fuori. Da spettatori dell’Universo. In contemplazione, al di fuori dell’agghiacciante spettacolo naturale. Immaginando indeterminati spazi dove la natura letteralmente divora. Il peggior incubo di Leopardi. Chissà come avrebbe rappresentato tale sconvolgente visione il poeta di Recanati. Anche lui, sulle nuove scoperte, avrebbe aggiunto infinito ad Infinito. E l’eterno sarebbe naufragato da subito nel buco nero del pessimismo spaziale. La grandezza e l’infinità della natura che gli scienziati ci prospettano avrebbero aggiunto angoscia ad angoscia, sia nell’arte che nella poesia, nei cuori più intimamente romantici. Nei cuori più intimamente contemporanei il varcare la soglia dell’infinito corrisponde invece ad uno sguardo più fugace, che aggiunge spazio allo spazio. Rimanendo comunque spettatori inadeguati di qualcosa che, da lontano, ci divora.
Stefania Bozzo
Opinioni
17:42 | 14/05/2018 - Dall'Italia